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Photo: Courtesy of Pucci Eyewear

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Eclettici anni '70

Gli anni ’70 del Novecento raccontano di quei grandi temi che hanno accompagnato il tumultuoso passaggio verso il mondo contemporaneo che conosciamo. Un’epoca di transizione piena di contraddizioni le cui influenze sul gusto hanno contaminato a vario titolo gli spazi e gli oggetti della nostra quotidianità. Occhiali compresi.

di Redazione

Temi stellari

Così potremmo chiamare i temi, come gli echi delle celebri guerre (stellari) del regista George Lucas, che hanno segnato il decennio: tra nuovi spazi intergalattici e immaginari da esplorare, rivoluzioni, politiche e sociali che ne hanno definito i contorni attraverso il rinnovamento del gusto e del lifestyle di un’epoca per molti aspetti rivoluzionaria. Questo fermento, che si legava alle rivoluzioni del decennio precedente attraverso un contraddittorio senso di sconfitta e vittoria al tempo stesso da parte degli aderenti alla controcultura, riscopre un individualismo che tende a esprimersi in eccentricità: dall’arte seriale e irriverente di Andy Warhol alle conturbanti sonorità di Lou Reed e dei Velvet Underground fino a Elton John e a David Bowie, che con un’originalità senza uguali hanno cantato l’ignoto di un altro spazio oltre la terra. E in termini di design questo fermento, come ha contaminato gli spazi e gli accessori della quotidianità? Attraverso una rivoluzione del gusto dall’intento inequivocabile.

Catalizzare lo sguardo

L’identità del decennio è passata dal mondo delle idee a quello del design imprimendo un significativo twist dal gusto post-moderno. Sono le linee essenziali e pulite del mondo degli oggetti, in particolare quelli relativi all’illuminazione – con la consacrazione delle lampade a sospensione dal bianco immacolato – a essere accostate agli immaginifici effetti tipicamente optical, frutto delle influenze del mondo della psichedelia ancora in voga, a caratterizzare le forme geometriche delle carte da parati dalle tinte sgargianti che decoravano le case. Il destino dei colori sembrava agganciarsi a quello delle forme costruite ad arte per ingannare l’occhio: l’Optical Art, nata sul finire degli anni ’60, si sviluppò e trovò la cornice migliore per esprimersi nel decennio successivo, accostando in particolare due colori: il bianco e il nero, il cui match diede il via al suo utilizzo più congeniale nella moda e negli accessori. Il mood board di questo stile, che strizza l’occhio alla fantascienza, anche attraverso occhiali dalla forma oversize dall’effetto stampato, è ben reso dal video clip creato da Jack Whiteley e Laura Brownhill per la canzone Bennie and The Jets, di Elton John, che proprio in quegli anni era intento a ricavarsi un posto nel tempio dello stile: esibirsi di fronte al pubblico con vistosi occhiali da sole, riccamente decorati anche al calar del sole, divenne un viatico verso l’iconografia di un’epoca. Ma furono gli occhiali dalla forma bold e dai colori vivaci a rappresentare al meglio i toni ironici e desiderosi di leggerezza di quella corrente del gusto, figlia di quei fiori che tutti conosciamo, che contribuì a dare un nuovo impulso agli oggetti e al design di interni del periodo. Dello stretto legame rivendicato dal revival delle filosofie orientali e della necessità di un benessere connesso a uno stato di natura è intriso quel trend che ancora oggi in casa Marcolin influenza le collezioni più glam e luxury, dalle forme audaci e dai colori pastello.

Furono gli occhiali dalla forma bold e dai colori vivaci a rappresentare al meglio i toni ironici e desiderosi di leggerezza di quella corrente del gusto figlia di quei fiori che tutti conosciamo

Sperimentare con nuovi materiali

Così fecero i designer del decennio, ricorrendo a nuove forme e a nuovi materiali. Dalla cultura pop e dal mondo dell’animazione si raccolsero bocche, mani, vegetali da trasformare nelle più eclettiche delle sedute. Dalla volontà di sperimentare, invece, nacque la necessità di concentrarsi su nuovi materiali. Anche controversi. Non è il caso della gommapiuma – antesignana del poliuretano espanso – bensì della plastica, sul cui utilizzo si scontrarono i due poli opposti della controcultura: quella hippy, che aberrava persino la parola perché «…di plastica erano gli oggetti prodotti in massa, facili da manipolare e privi di autenticità. Le persone di plastica avevano gli stessi attribuiti» scriveva Ken Goffman nel saggio Controculture. Al contrario per Warhol, la plastica possedeva qualità: flessibilità, mutevolezza, variabilità. «Nel regno dell’autenticità, la flessibilità può essere sospetta» proseguiva Goffman, rimarcando il contrasto estetico e di pensiero di un decennio fortemente contraddittorio, che spinse una parte del movimento hippy a seguire la variabilità eccentrica di Warhol, caratterizzata da suo ironico distacco. Del resto, l’artista passò alla storia per essere attratto dal denaro, dalla fama e dalla bellezza superficiale.

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